VIII.

Il Trecento minore

1. Motivi preumanistici nella letteratura trecentesca

Il Petrarca e il Boccaccio, ma soprattutto il Petrarca con la sua opera latina e con la sua attività epistolare (fra corrispondenti effettivi e corrispondenti ideali: gli antichi classici cui spesso egli si rivolge in lettere scritte per illustrare problemi letterari e filologici), promossero fortemente lo sviluppo di un atteggiamento spirituale, culturale e letterario che può chiamarsi preumanistico e in parte addirittura umanistico, dato che i motivi di un rinnovamento dell’antica civiltà in quella moderna, della esemplarità assoluta degli scrittori latini classici, la fiducia nella forza educatrice della letteratura e della forma, gli ideali della gloria e di nuova grandezza costruita sulla tradizione e gloria dell’antica Roma, sono già ben presenti nel Petrarca e circolano (insieme alla pratica di una ricerca dei testi classici e di una loro edizione filologica) fra i numerosi grammatici, dotti e letterati che ebbero appunto rapporti con Petrarca e Boccaccio.

Sia in Toscana, sia nella Provenza, intorno alla corte papale, sia in varie regioni italiane e soprattutto nel Veneto, a Padova, dove già fra il tardo Duecento e la prima metà del Trecento si era creato un fervido centro di interessi preumanistici dominato dalla notevole personalità di Albertino Mussato (1261-1329), che nella sua tragedia in latino Ecerinis espresse i suoi ideali di libertà comunale e di opposizione ai tiranni (in quel caso Ezzelino da Romano insidiatore della libertà di Padova), in una analogia con la libertà repubblicana romana e in uno stile che imita le tragedie di Seneca, come nelle sue opere storiche egli dimostra la conoscenza e l’imitazione di Livio e di Sallustio: di autori di quella civiltà classica di cui il Mussato tende a riprendere e rinnovare ideali e forme espressive per dar vita ad una propria visione della vita in cui i piú precisi ideali medievali vengono spostandosi verso forme piú aperte, umane, mondane, illuminate dall’eccellenza dello stile e della poesia senza le quali la vita appare brutale e rozza.

Tutto il Trecento è percorso da questa corrente di preumanismo cosí evidente nel Boccaccio e soprattutto nel Petrarca, e che questi piú fortemente raccolse in sé e trasmise agli iniziatori piú decisi del movimento umanistico, tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento: movimento, fra l’altro, che venne dando sin dall’epoca petrarchesca un nuovo primato culturale e letterario all’Italia di fronte all’iniziativa soprattutto francese nei secoli immediatamente precedenti.

2. Poeti minori del Trecento

Ma, mentre l’Umanesimo sarà in sostanza l’elemento dominante e unificatore del secolo successivo, nel Trecento il preumanesimo si svolge entro un contesto piú vasto e vario. Anche se la base comune è da ricercare pur sempre nel rigoglio economico e civile della vita comunale e d’altra parte nelle sue difficoltà crescenti e poi nella sua crisi (a Trecento avanzato), quando sorgerà piú forte un pessimismo che condurrà all’accettazione delle signorie, ciò avviene con tutta una larga varietà di fasi nel tempo e nello spazio che complica la descrizione di questo secolo e della civiltà letteraria.

È chiaro infatti che la ripresa della poesia didascalica e allegorica (a cui del resto, come abbiamo visto, ritornò anche il Petrarca con i Trionfi) costituisce un piú forte residuo della cultura medievale rafforzata da quella grandiosa sintesi dantesca della Commedia che, da una parte, attrae l’attenzione di numerosi commentatori (che la interpretano alla luce delle varie e successive posizioni culturali, ma con un centrale riconoscimento della grandezza soprattutto scientifica e culturale del poema), dall’altra, stimola la creazione di altri poemi didattici e allegorici. Fra questi si potrà ricordare l’Acerba che Francesco Stabili, detto Cecco d’Ascoli (1269-1327), astrologo ed eretico (e come tale fatto bruciare dall’inquisizione domenicana a Firenze), scrisse in aperta polemica con Dante, a cui rimproverava l’eccessivo uso di leggende e miti e contrapponeva una poesia piú nudamente scientifica, piú direttamente didattica che allegorica, estremo prodotto di una concezione della poesia come pura versificazione di concetti scientifici. O si potranno ricordare il povero e pedestre Dottrinale di uno dei figli di Dante, Jacopo, o, ancor piú tardo frutto di una arretrata poetica medievale alle soglie del Quattrocento, il Quadriregio del vescovo di Foligno, Federigo Frezzi (1346-1416), astrusa ed arida descrizione allegorica di una vicenda di perfezionamento morale e religioso.

Piú interessante e vivo, in una specie di limpida e spesso gustosa illustrazione poetica della terra allora conosciuta e particolarmente dell’Italia, è l’incompiuto Dittamondo del pisano (ma della grande famiglia di ghibellini fiorentini in esilio) Fazio degli Uberti (1305 circa-1367), il quale a Dante (di cui nel poema di Fazio ritorna anche un’eco del fervore morale e religioso) è legato anche per la sua notevole raccolta di rime che riprendono i modi delle «petrose» dantesche con una minore forza di arte, ma con una loro schiettezza e freschezza sentimentale che non è quella di un puro e semplice imitatore.

3. La storiografia

Ci fa assistere anche al passaggio dall’età di Dante e del primissimo Trecento ad una zona piú tarda e diversa, specie nella situazione comunale fiorentina, la successiva considerazione dell’opera cronistica di Dino Compagni e di quella di Giovanni Villani.

Perché la prima (Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi), dovuta al guelfo bianco Dino Compagni (1255-1324), partecipe autorevole (fu due volte priore) delle tristi vicende che portarono Dante all’esilio, delinea – attraverso l’animo candido e appassionato dello scrittore, attraverso le sue impressioni schiette delle cose, le sue dolenti recriminazioni sulla malvagità degli uomini disonesti, le invocazioni fiduciose alla divina giustizia – una situazione storica dominata da una forte passione di patriottismo cittadino, da una sicura fede religiosa, sicché tutto ciò che avviene di male è dovuto al demonio e agli uomini cattivi, e il bene dipende da Dio, da un essenziale bisogno di ordine universale e comunale che rispecchia, in tono piú ingenuo e in un’arte piú popolaresca e angusta, ma fresca e risentita, i grandi ideali danteschi e medievali.

La Cronica del Compagni tratta della storia fiorentina dal tempo della pace del cardinal Latino, che riconciliava guelfi e ghibellini (1280), fino alla sconfitta della parte bianca e alla discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII (1310). Nella narrazione di queste vicende si scontrano gli elementi che agitano la coscienza dello scrittore: la pressione della tradizione religiosa e morale e la realtà politica e umana. Ne nasce un dramma insanabile, una lacerazione che contiene in sé lo stesso contrasto storico tra il mondo medievale e il nuovo mondo che affiora e nel quale giocano un ruolo spietato gli interessi concreti e contrastanti degli uomini è da questa tensione drammatica che nascono le pagine migliori di questa Cronica, che sono quelle in cui l’autore disegna con vigore e brevità le figure principali della storia fiorentina di quegli anni (la figura ambigua dell’avido Carlo di Valois, l’ingegno malvagio e il carattere violento di Corso Donati) o punta il dito contro la viltà di quei cittadini che non si sono curati del bene pubblico, ingenuamente sperando di salvare se stessi attraverso i torbidi di calamitosi avvenimenti pubblici. In questa condanna il Compagni accomuna cosí i nemici della parte bianca con quei capi di questa che non si mostrarono all’altezza della situazione per avarizia e viltà.

Mentre la Cronaca fiorentina di Giovanni Villani (continuata dopo la sua morte, nel 1348, dal fratello Matteo e dal figlio di questo, Filippo, sino agli inizi del nuovo secolo) ben segna il passaggio ad una concezione storica e politica in certo modo piú moderna (anche se nella parte iniziale il richiamo alla torre di Babele e poi ai miti dell’origine di Fiesole e di Firenze danno all’opera un’aria arcaica) in quanto, attenuata la passione morale e civile di Dino, prevale una nuova attenzione ai fattori economici della storia e allo sfondo europeo in cui si muovono i nuovi stati sempre piú indipendenti da Impero e Chiesa. Ne risulta una prosa piú fredda e arida, ma anche un interesse storico maggiore che è l’indice di una civiltà piú concreta e pratica, meno utopistica, e ancorata ad un chiaro prevalere degli elementi di una borghesia mercantile, fiorente per i suoi traffici, aliena da sogni troppo ardui, anche se non priva di un suo orgoglio e di una sua volontà di nobilitazione attraverso la cultura e l’arte.

Questo accade principalmente quando le vicende narrate dal Villani si fanno a lui contemporanee. Cadono allora tutti i vecchi miti e i luoghi comuni ch’egli ha ereditato dalla tradizione cronachistica e storiografica medievale e si fanno avanti le concrete indicazioni sulle situazioni politiche, dominate e regolate dagli interessi economici della grossa borghesia cittadina, che si lega al partito guelfo e angioino in ascesa in Italia e in Europa. Ma il Villani mostra anche una chiara coscienza della complessità delle vicende storiche che viene narrando: cosí, accanto alla delineazione di avvenimenti politici, di guerre, di fatti economici, dei grandi affari europei, non tralascia di dire di figure dei grandi uomini del tempo, come Dante; dà conto delle magistrature fiorentine nel loro acquistare o perdere autorità; registra i dati dell’amministrazione del pubblico danaro, concretamente avvicinandosi ad un tipo di storiografia obbiettiva, tessuta piuttosto di fatti e di interpretazioni di essi che non di passioni civili e morali.

E, abbandonando il campo della cronaca (in cui, fuori di Firenze, si dovrà ricordare, come singolare documento di un’arte violenta e robusta, la cronaca anonima in volgare romanesco che si accentra nella narrazione della vita avventurosa e della squallida morte di Cola di Rienzo; o invece a Firenze qualche cronaca di viaggi, come il Viaggio in Terrasanta, lucido e preciso di particolari concernenti i mezzi tecnici del viaggio, gli usi e i costumi di popoli lontani, la descrizione di luoghi famosi o di città, di Lionardo Frescobaldi), tale forma di nobilitazione attraverso la letteratura meglio si capirà se ci riferiamo, su di un piano altissimo, al Decameron, e, su di un piano minore, ma storicamente ben interessante, ad altre opere di novellistica trecentesca che appaiono appunto come il commento e l’adornamento narrativo e piacevole della vita trecentesca nei suoi valori medi e nel piú largo ambito del popolo «grasso» e «minuto», e cioè dei vari strati della borghesia.

4. La novellistica minore

E ciò tanto meglio si potrà vedere, misurando insieme implicitamente le stesse differenze che corrono con il grande Decameron, piú che in altri novellieri trecenteschi toscani (come il Pecorone attribuito a un non ben precisato Ser Giovanni Fiorentino o come le novelle del lucchese Giovanni Sercambi), nel Trecentonovelle (ma a noi ne restano 223) del fiorentino Franco Sacchetti (1330-1400) che è certo la personalità piú rilevante nel quadro della letteratura fiorentina del secondo Trecento.

Nato fuori di Firenze, a Ragusa in Dalmazia, ma da vecchia famiglia fiorentina guelfa, il Sacchetti è anche professionalmente un tipico rappresentante della borghesia mercantile fiorentina, dotato di esperienza vasta anche a causa dei suoi numerosi viaggi, e d’altra parte partecipe attivo alla vita politica del comune, in cui ricoprí vari uffici pubblici prendendo posizione a favore di una democrazia basata sul potere del ceto medio e contro i tentativi di un dominio oligarchico e contro quelli (culminati nel tumulto dei Ciompi del 1378) di prevalenza della plebe.

A questa posizione politica di equilibrio borghese corrispondono nel Sacchetti generali ideali di buon senso e di una seria, ma poco profonda moralità e religiosità che, nella sua attività letteraria, si rispecchiano piú che nella produzione giovanile, piú libera, estrosa e piacevole (dalle ottave scherzose della Battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie alle rime per musica di particolare freschezza, come la celebre O vaghe montanine pastorelle), in quella dell’età matura e della vecchiaia: prima nelle Sposizioni di vangeli, serie di riflessioni e appunti morali sulla base di esperienze e casi di vita quotidiana, poi nelle rime morali e polemiche piú legate alla cronaca cittadina, infine nel suo capolavoro, il Trecentonovelle.

Inutile ed errato sarebbe cercare in questo la complessità e la poesia di un Boccaccio, tanto piú angusto è l’ambito della cultura (egli stesso si definiva «uomo discolo e grosso») e della personalità del Sacchetti. Ma a questi limiti corrispondono la consapevolezza dello scrittore rivolto ad un pubblico medio e poco esigente, e l’equilibrio di una posizione piú cronachistica e piacevole: donde il prevalere della beffa e delle gustose trovate, dell’aneddoto e della caricatura di personaggi semplici e sciocchi a cui si contrappone il buon senso e il sorriso, cosí come una saggezza pratica e ragionevole viene contrapposta ad una visione della realtà tutt’altro che priva di tinte fosche nella consapevolezza della difficile situazione del tempo (corruzione di ecclesiastici e uomini della legge, guerre e divisioni nell’Italia esposta alle soldatesche di ventura e alla cupidigia di tiranni) che suscita anche sarcasmo e sdegno.

In questa prospettiva l’arte del Sacchetti, che accorda moralità e gusto realistico, si precisa nella felicità delle trovate e dei motti, delle invenzioni di situazioni narrative aneddotiche, nei ritratti e bozzetti, secondo una inclinazione che si ritroverà spesso in certa arte narrativa toscana di varie epoche.

5. I romanzi cavallereschi

Il piacere del narrare che è particolarmente forte nella Toscana comunale non si attua solo nella novellistica ed anzi si espande con maggiore abbondanza nei cantari e nei romanzi cavallereschi che hanno piú diretta e vasta diffusione negli strati inferiori della complessa, ma assai aperta società trecentesca (fra piccola borghesia di artigiani e vera e propria plebe cittadina e contadina): una società in cui le distinzioni di classe sono in realtà meno rigide e permettono una circolazione di cultura molto vasta e diffusa, mentre elementi popolari sono presenti anche nella letteratura piú illustre, dando in qualche modo ragione al Giordani che nel Trecento vedeva non solo l’epoca di un’aurea purezza linguistica, ma anche l’epoca in cui piú forte e genuino era stato il contatto fra scrittori e popolo. Cosí come, per stare al giudizio poetico di un altro grande ammiratore del Trecento, il Carducci, non si può certo negare la fertile vitalità letteraria di un’epoca, non tutta libera e avventurosa com’egli la chiamò, ma certo fortemente attiva di vicende e di vita politica pur fra i lamenti degli esuli e la sensazione crescente del decadere dell’istituzione comunale.

Quella dei romanzi cavallereschi era una tradizione ben viva già nel secolo precedente, ma nel Trecento essa si impose soprattutto mercé l’attività copiosa del cantastorie Andrea de’ Mengabotti di Barberino in Val d’Elsa (morto nel terzo decennio del secolo seguente), i cui romanzi in prosa, prolissi, monotoni, ma adatti alle lunghe e replicate letture di un pubblico avido piú di fatti che di arte (I reali di Francia, Il Guerrin meschino ecc.), ebbero una diffusione popolare e contadina che è giunta almeno sino all’Ottocento.

D’altra parte i cantari in ottava rima, in gran parte anonimi e di varia lunghezza (i piú lunghi piú adatti alla lettura, i piú brevi alla recitazione nelle piazze da parte dei canterini o cantimbanchi), offrono insieme un forte nutrimento alla fantasia di un vasto pubblico di lettori e ascoltatori (e nella vasta produzione non mancano cantari piú poeticamente vivi fra il patetico e il fiabesco: come la Donna del Verga o il Liombruno) e interessano anche dei veri letterati come il Boccaccio, che nei poemetti e romanzi riprese e portò a condizione di arte piú elevata la materia narrativa ricca e fresca di alcuni cantari.

Né gli stessi cantari che riprendono la materia epica antica o carolingia o bretone sono prodotti isolati in questa larga zona piú popolaresca, perché in versi facili, poco elaborati, a tutti comprensibili, sono spesso narrate cronache e storie cittadine, o rappresentate scene della minuta vita di ogni giorno.

E a volte lo stesso autore si esercita in questi vari temi, come fece soprattutto quel singolare scrittore fiorentino, Antonio Pucci (1310-1388), che, per il suo stesso impiego di campanaro e banditore del comune, ben rappresenta quel tipo di popolano trecentesco strettamente legato alla vita comunale e attento alle vicende e alle esigenze cittadine che egli commenta nei suoi componimenti semplici, aneddotici, ma efficaci e schietti. Cosí riespone in versi la cronaca del Villani (il Centiloquio), canta la guerra dei fiorentini contro Pisa, scrive cantari di argomento cavalleresco e leggendario (Brito di Brettagna, Madonna Lionessa ecc.), esalta con affetto la vita popolare fiorentina quale si svolgeva nel mercato (Proprietà di mercato vecchio).

6. La letteratura religiosa

Si tratta di una letteratura popolare, mai priva di una sua moralità di buon senso, di praticità, di ragionevolezza e di religiosità: insomma di un suo intento ammaestrativo. E da questo punto di vista ad essa si può ricollegare, su questo vasto piano di destinazione popolare o anche non popolare e di intenti pratici e morali prevalenti, la vasta e importante letteratura religiosa che è parte cosí notevole della letteratura trecentesca e corrisponde ad un elemento intenso, e a suo modo piú libero e spontaneo (la vita spirituale è ancora tutta interamente inclusa nell’ambito della religione anche se spesso in forme eretiche e ribelli alla disciplina ecclesiastica), della ricca vita del tempo.

Accanto ai volgarizzamenti da testi latini, che testimoniano di questa esigenza e volontà di diffusione piú vasta e popolare (e fra questi volgarizzamenti sono particolarmente importanti, per lo spirito religioso e la sua espressione in una prosa semplice e viva, gli anonimi Fioretti di San Francesco e le Vite dei Santi padri di Domenico Cavalca), la letteratura religiosa è soprattutto fatta di resoconti e compendi di prediche effettivamente tenute nelle chiese e nelle piazze (quelle lucide e semplici del domenicano Giordano da Pisa o quelle del domenicano fiorentino Jacopo Passavanti, morto nel 1357, raccolte nello Specchio di vera penitenza, potenti e drammatiche, capaci di alti esiti narrativi, anche se in funzione ammaestrativa, come il celebre racconto del carbonaio di Niversa che richiama la novella boccaccesca di Nastagio degli Onesti) o di narrazioni di vite esemplari e di vicende di religiosi (fra le quali spicca per intimità e drammaticità senza retorica la Storia di fra Michele minorita, che narra la cattura, il processo e la morte sul rogo di un fraticello fedele alla piú rigida regola francescana e avversario strenuo della potenza politica ed economica del clero e del papato), o di lettere e trattati mistici.

Lettere che esprimono un’intensa vita ed esperienza religiosa scrisse il beato Giovanni Colombini (1304-1363) di Siena, fondatore dell’ordine dei Gesuati. E lettere ardenti ed eloquenti, in cui un misticismo sofferto e tormentoso, esposto come dottrina nel Dialogo della divina provvidenza, si traduce attraverso immagini infuocate e robuste e spesso anche complicate e baroccheggianti, scrisse la grande santa senese Caterina Benincasa (1347-1380), che bruciò la sua breve vita in una febbre di attività e di sacrificio per il rinnovamento della chiesa corrotta, per il ritorno dei papi da Avignone a Roma, per la salvezza di quelle anime peccatrici, che piú stimolano anche la sua tenerezza, il suo vivo sentimento delle concrete persone: come avviene nel caso della celebre lettera sulla morte di Niccolò di Tuldo, condannato a torto e tuttavia persuaso da Caterina al perdono e all’accettazione della volontà divina.

Né mancano di un intento pratico e pio e d’altra parte di una volontà di spettacolo quelle laudi drammatiche che si diffondono nel Trecento dall’Umbria agli Abruzzi, alla Toscana, dove nel secolo seguente esse saranno sostituite dalle piú teatrali rappresentazioni sacre.

Si può facilmente vedere che la letteratura di cui abbiamo parlato è quasi tutta toscana e toscani (o di una regione limitrofa come l’Umbria nella sua zona perugina) sono anche la maggior parte dei poeti lirici, mentre quelli che appartengono ad altre parti d’Italia (Emilia o Veneto) riconoscono di fatto l’egemonia della lirica e della lingua letteraria toscana sia nella linea di tipo stilnovistico (in cui eccelse la figura del fiorentino Sennuccio del Bene), sia in quella borghese-realistica in cui si sono già ricordati il fiorentino Pieraccio Tedaldi, il lucchese Pietro de’ Faitinelli, il senese Bindo Bonichi e i piú notevoli perugini Neri Moscoli, Cecco Nuccoli e Marino Ceccoli.

Poeti, questi ricordati, che vivono nelle condizioni della vita comunale, magari risentendone con dolore le difficoltà e la crisi. Invece, specie nel Nord Italia, nella seconda metà del secolo, quando piú chiara si profila l’istituzione delle signorie, si viene insieme precisando un tipo di poeta cortigiano sradicato da una vera vita cittadina e politica, disposto ad una poesia d’occasione, come è il caso di Antonio da Ferrara e di Francesco di Vannozzo.